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martedì 19 giugno 2012

IL PROCESSO AD ARTEMISIA GENTILESCHI

Ecco qui il capitolo del libro che racconta del processo ad Artemisia Gentileschi.


Il processo alla fine ci fu, ma ad Artemisia non venne risparmiata alcuna sofferenza. Più che un processo pareva una sorta di farsa, come se anziché una violenza si fosse compiuta una birbanteria e fin da subito da vittima Artemisia passò ad essere vista come la vera colpevole di quanto accaduto. La interrogarono più e più volte, mentre lei, sempre con lo sguardo fisso al volto dei giudici, ripeteva quanto accaduto in quel giorno infausto. La si accusava anche di aver continuato a frequentare Agostino Tassi anche dopo quella “presunta” violenza, come la chiamarono, ed Artemisia non poté che confermare. Era per salvare il suo onore, per sapere quando l’avrebbe chiesta in moglie che lo aveva frequentato, ma quel particolare finì per ritorcersi contro di lei. Tra la gente accorsa per assistere al processo cominciò a diffondersi l’idea che in realtà la ragazza fosse stata l’amante del Tassi e che quindi nessuna violenza era stata commessa. Agostino naturalmente negava tutto:

“Non si troverà mai che io abbia avuto a che fare con la detta Artemisia, se Artemisia dice che io ho avuto a che fare con lei non dice il vero” ripeteva durante il processo.

Artemisia non cambiò la sua versione e continuò a subire ogni sorta di nefandezze. Non chinò la testa nemmeno quando la obbligarono a sottoporsi a visite ginecologiche davanti ai giudici per accertare se davvero era stata compiuta una violenza, né quando in tribunale la si obbligò a confrontarsi con personaggi abbietti che, come si scoprì in seguito, erano stati pagati per mentire. Questa gente riferì ai giudici che la giovane Artemisia non poteva aver subito alcuna violenza dallo Smargiasso, poiché era risaputo che da tempo vendeva il suo corpo in cambio di denaro, un fatto che tutto il quartiere conosceva, se non tutta Roma. Riferirono poi che il Tassi era persona onesta e che l’unico interesse dimostrato per la figlia di Orazio Gentileschi era stato esclusivamente professionale poiché il padre della ragazza l’aveva pregato di darle lezioni di prospettiva. Anche fuori del tribunale la gente commentava quanto accaduto e ciò che veniva detto durante il processo passava di bocca in bocca tra il popolo che nutriva grande curiosità intorno a quella vicenda. Nel Quartiere degli artisti erano pochi, ormai, quelli che ancora salutavano Artemisia al suo passaggio. I più fingevano di non vederla, giudicando poco decoroso salutare una giovane donna che aveva osato portare in tribunale l’uomo che-come affermava lei-le aveva usato violenza. Tuzia le era ormai nemica mentre il padre Orazio pareva sconcertato da come quel fatto avesse scombussolato le loro vite. Si rendeva conto di aver agito spinto dalla collera e pensava che, se fosse tornato indietro, probabilmente non avrebbe denunciato il Tassi, sapendo a quale prezzo la figlia doveva difendere la sua dignità. Ma per Artemisia le mortificazioni non erano ancora finite. Pur di farle confessare il falso i giudici, che le contestavano fin da principio la sua deposizione, decisero di sottoporla a quella che veniva chiamata “la tortura dei sibilli”. Si trattava di lacci che venivano legati ad ogni dito più stretti e tirati fino allo strozzamento delle dita che prendevano a sanguinare. Artemisia non gridò, non pianse mentre le si spaccavano le dita, mentre di fronte a lei il suo aguzzino osservava la scena senza traccia di pentimento, o almeno di pietà per quanto la ragazza era costretta a subire. Non si disperò, nemmeno quando il dolore divenne insopportabile. Pensava solo alle sue tele, ai dipinti che doveva terminare e a quelli che ancora dovevano essere creati, pensava a quante volte quell’identica tortura aveva provocato danni irreversibili, pensava, insomma, che per colpa di una colpa non commessa ma subita forse non sarebbe stata più in grado di dipingere. Tutto questo subiva Artemisia, consapevole di non essere creduta. Ci fu un attimo di sbigottimento, tra i giudici, quando un interrogato, Giovan Battista Stiattesi, raccontò di aver conosciuto a Livorno Agostino Tassi e la moglie. Nessuno sapeva che lo Smargiasso fosse sposato e nemmeno che avesse ucciso la moglie. Quest’ultima, disse lo Stiattesi, era fuggita con un uomo e Agostino, pazzo di gelosia e ben deciso a difendere il suo onore, fece di tutto per ritrovarla, ma senza successo. In seguito il Tassi si trasferì a Roma ma secondo lo Stiattesi, che affermava di aver visto con i propri occhi le lettere dei mercanti livornesi, pisani e lucchesi, riuscì a far ammazzare la moglie. Eppure, nemmeno dopo quella dichiarazione i giudici credettero alla versione della giovane Gentileschi. Nemmeno quando uno degli interrogati svelò il segreto del Tassi, questo segreto orribile, si pensò che Artemisia fosse nel giusto. A pesare a suo sfavore, il fatto di aver atteso a lungo a denunciare il suo violentatore, una decisione che faceva apparire Artemisia sotto tutt’altra luce. I giudici credevano che fosse l’amante del Tassi e che avesse inscenato quella commedia per vendicarsi di qualche manchevolezza di quest’ultimo o di promesse vane, come appunto quella di sposarla, ma certo non come conseguenza di uno stupro. In tutta Roma ormai si parlava di Artemisia come di una prostituta e si vociferava di quanti uomini avesse avuto prima del Tassi. Artemisia naturalmente soffriva molto nel sentire quelle voci, specialmente perché spesso giungevano dalla bocca delle donne. Non riusciva a capire come proprio le donne, considerate dalla società come esseri inferiori, con molti meno diritti degli uomini, le donne così spesso offese in mille modi diversi, potessero non stare dalla sua parte. Non comprendeva il perché la quasi unanimità dell’universo femminile- perché per fortuna qualcuna le aveva dimostrato solidarietà- le fosse nemica e addirittura spargesse voci non vere sul suo conto. Ancora una volta l’invidia, pensava Artemisia, perché io dipingo, ma anche perché sto affrontando da sola questo processo. Perfino il padre Orazio, colui che aveva formalmente denunciato Agostino Tassi, adesso si teneva quasi in disparte, sperando che il processo finisse in fretta. Artemisia temeva che anche lui dubitasse di lei ma non chiese mai nulla in proposito. Un colpo del genere l’avrebbe distrutta, e lei doveva essere forte per tutta la durata del processo. Agostino naturalmente continuava a negare e alla fine, solo la prova di una falsa testimonianza deposta da un suo giovane apprendista indusse i giudici a condannarlo. Tuttavia, la pena fu lieve, solamente qualche mese da passare nel carcere di Corte Savella da dove lo Smargiasso tentò di convincere Artemisia a incolpare qualcun altro dello stupro, cosa che la ragazza non prese nemmeno in considerazione. Il suo aguzzino era stato condannato, è vero, ma per Artemisia le cose non furono più come prima, anzitutto con il padre. Si era come spezzato qualcosa tra loro da quando il processo aveva avuto inizio, nonostante fosse stato proprio Orazio a dare il via a tutta la faccenda. Anche lui si accorgeva di come la gente osservava Artemisia, di come tanti amici e conoscenti si tenevano a distanza da lei, delle continue insinuazioni sul conto della figlia. Ma lui ne era toccato solo marginalmente. Lui, in quanto uomo, era comunque rispettato, nessuno gli aveva tolto il saluto e continuava a lavorare come nulla fosse accaduto. Anche ai fratelli di Artemisia non era toccata la sorte della sorella e nessuno era stato messo al bando o isolato dalla comunità. In casa l’atmosfera era tesa e si parlava poco, la stessa Artemisia preferiva restare da sola e non parlare piuttosto che sopportare la sensazione degli occhi fissi su di sé del padre che sembrava chiederle in una muta domanda se avesse qualche responsabilità in quell’affare. I momenti più drammatici del processo e della violenza continuavano a perseguitarla e solo la pittura riusciva a regalarle sprazzi di serenità. Era riuscita a riprendersi dal dolore causato dalla tortura dei sibilli ma sembrava che più nessuno volesse i suoi quadri; nonostante questo Artemisia ostinatamente dipingeva, perché sapeva che la pittura era lei e lei era la pittura. Potevano maltrattarla, emarginarla, sparlare di lei finché avevano fiato, ma la sua arte doveva crescere, svilupparsi e lei sentiva che quella era la sua strada. Però, temeva che da quel momento in poi la gente, sia i suoi contemporanei sia, se avesse avuto fortuna e il suo nome si fosse tramandato anche tra le generazioni dei secoli a venire, l’avrebbe ricordata non per la sua arte e i suoi dipinti, non per il modo in cui dipingeva un volto o rendeva le luci e le ombre, ma unicamente per quell’episodio, quella violenza che aveva rovinato per sempre la sua vita. Per questo motivo, quella mattina dell’autunno 1612, capì che vi era un unico modo per non correre quel pericolo. Era un segreto che aveva imparato anni prima, da una donna che l’aveva aiutata quando sua madre era morta. Non era una strega ma aveva appreso, non si sapeva come, rimedi, pozioni e incantesimi di ogni genere. Era una buona donna e solo ad Artemisia aveva confidato l’incantesimo degli incantesimi, il più potente. Era vecchia e stanca di vivere. Artemisia aveva ricopiato sul suo diario l’incantesimo, ma non aveva mai seriamente pensato di usarlo. E il momento, invece, era giunto.


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