Il processo alla fine ci fu, ma ad Artemisia non venne
risparmiata alcuna sofferenza. Più che un processo pareva una sorta di farsa,
come se anziché una violenza si fosse compiuta una birbanteria e fin da subito
da vittima Artemisia passò ad essere vista come la vera colpevole di quanto
accaduto. La interrogarono più e più volte, mentre lei, sempre con lo sguardo
fisso al volto dei giudici, ripeteva quanto accaduto in quel giorno infausto.
La si accusava anche di aver continuato a frequentare Agostino Tassi anche dopo
quella “presunta” violenza, come la chiamarono, ed Artemisia non poté che
confermare. Era per salvare il suo onore, per sapere quando l’avrebbe chiesta
in moglie che lo aveva frequentato, ma quel particolare finì per ritorcersi contro
di lei. Tra la gente accorsa per assistere al processo cominciò a diffondersi
l’idea che in realtà la ragazza fosse stata l’amante del Tassi e che quindi
nessuna violenza era stata commessa. Agostino naturalmente negava tutto:
“Non si troverà mai che io abbia avuto a che fare con la
detta Artemisia, se Artemisia dice che io ho avuto a che fare con lei non dice
il vero” ripeteva durante il processo.
Artemisia non cambiò la sua versione e continuò a subire
ogni sorta di nefandezze. Non chinò la testa nemmeno quando la obbligarono a
sottoporsi a visite ginecologiche davanti ai giudici per accertare se davvero
era stata compiuta una violenza, né quando in tribunale la si obbligò a
confrontarsi con personaggi abbietti che, come si scoprì in seguito, erano stati
pagati per mentire. Questa gente riferì ai giudici che la giovane Artemisia non
poteva aver subito alcuna violenza dallo Smargiasso, poiché era risaputo che da
tempo vendeva il suo corpo in cambio di denaro, un fatto che tutto il quartiere
conosceva, se non tutta Roma. Riferirono poi che il Tassi era persona onesta e
che l’unico interesse dimostrato per la figlia di Orazio Gentileschi era stato
esclusivamente professionale poiché il padre della ragazza l’aveva pregato di
darle lezioni di prospettiva. Anche fuori del tribunale la gente commentava
quanto accaduto e ciò che veniva detto durante il processo passava di bocca in
bocca tra il popolo che nutriva grande curiosità intorno a quella vicenda. Nel
Quartiere degli artisti erano pochi, ormai, quelli che ancora salutavano
Artemisia al suo passaggio. I più fingevano di non vederla, giudicando poco
decoroso salutare una giovane donna che aveva osato portare in tribunale l’uomo
che-come affermava lei-le aveva usato violenza. Tuzia le era ormai
nemica mentre il padre Orazio pareva sconcertato da come quel fatto avesse
scombussolato le loro vite. Si rendeva conto di aver agito spinto dalla collera
e pensava che, se fosse tornato indietro, probabilmente non avrebbe denunciato
il Tassi, sapendo a quale prezzo la figlia doveva difendere la sua dignità. Ma
per Artemisia le mortificazioni non erano ancora finite. Pur di farle
confessare il falso i giudici, che le contestavano fin da principio la sua
deposizione, decisero di sottoporla a quella che veniva chiamata “la tortura
dei sibilli”. Si trattava di lacci che venivano legati ad ogni dito
più stretti e tirati fino allo strozzamento delle dita che prendevano a
sanguinare. Artemisia non gridò, non pianse mentre le si spaccavano le dita,
mentre di fronte a lei il suo aguzzino osservava la scena senza traccia di
pentimento, o almeno di pietà per quanto la ragazza era costretta a subire. Non
si disperò, nemmeno quando il dolore divenne insopportabile. Pensava solo alle
sue tele, ai dipinti che doveva terminare e a quelli che ancora dovevano essere
creati, pensava a quante volte quell’identica tortura aveva provocato danni
irreversibili, pensava, insomma, che per colpa di una colpa non commessa ma
subita forse non sarebbe stata più in grado di dipingere. Tutto questo subiva
Artemisia, consapevole di non essere creduta. Ci fu un attimo di sbigottimento,
tra i giudici, quando un interrogato, Giovan Battista Stiattesi, raccontò di
aver conosciuto a Livorno Agostino Tassi e la moglie. Nessuno sapeva che lo
Smargiasso fosse sposato e nemmeno che avesse ucciso la moglie. Quest’ultima,
disse lo Stiattesi, era fuggita con un uomo e Agostino, pazzo di gelosia e ben
deciso a difendere il suo onore, fece di tutto per ritrovarla, ma senza
successo. In seguito il Tassi si trasferì a Roma ma secondo lo Stiattesi, che
affermava di aver visto con i propri occhi le lettere dei mercanti livornesi,
pisani e lucchesi, riuscì a far ammazzare la moglie. Eppure, nemmeno dopo
quella dichiarazione i giudici credettero alla versione della giovane Gentileschi.
Nemmeno quando uno degli interrogati svelò il segreto del Tassi, questo segreto
orribile, si pensò che Artemisia fosse nel giusto. A pesare a suo sfavore, il
fatto di aver atteso a lungo a denunciare il suo violentatore, una decisione
che faceva apparire Artemisia sotto tutt’altra luce. I giudici credevano che
fosse l’amante del Tassi e che avesse inscenato quella commedia per vendicarsi
di qualche manchevolezza di quest’ultimo o di promesse vane, come appunto
quella di sposarla, ma certo non come conseguenza di uno stupro. In tutta Roma
ormai si parlava di Artemisia come di una prostituta e si vociferava di quanti
uomini avesse avuto prima del Tassi. Artemisia naturalmente soffriva molto nel
sentire quelle voci, specialmente perché spesso giungevano dalla bocca delle
donne. Non riusciva a capire come proprio le donne, considerate dalla società
come esseri inferiori, con molti meno diritti degli uomini, le donne così
spesso offese in mille modi diversi, potessero non stare dalla sua parte. Non
comprendeva il perché la quasi unanimità dell’universo femminile- perché per
fortuna qualcuna le aveva dimostrato solidarietà- le fosse nemica e addirittura
spargesse voci non vere sul suo conto. Ancora una volta l’invidia, pensava
Artemisia, perché io dipingo, ma anche perché sto affrontando da sola questo
processo. Perfino il padre Orazio, colui che aveva formalmente denunciato
Agostino Tassi, adesso si teneva quasi in disparte, sperando che il processo
finisse in fretta. Artemisia temeva che anche lui dubitasse di lei ma non
chiese mai nulla in proposito. Un colpo del genere l’avrebbe distrutta, e lei
doveva essere forte per tutta la durata del processo. Agostino naturalmente
continuava a negare e alla fine, solo la prova di una falsa testimonianza
deposta da un suo giovane apprendista indusse i giudici a condannarlo.
Tuttavia, la pena fu lieve, solamente qualche mese da passare nel carcere di
Corte Savella da dove lo Smargiasso tentò di convincere Artemisia a incolpare
qualcun altro dello stupro, cosa che la ragazza non prese nemmeno in
considerazione. Il suo aguzzino era stato condannato, è vero, ma per Artemisia
le cose non furono più come prima, anzitutto con il padre. Si era come spezzato
qualcosa tra loro da quando il processo aveva avuto inizio, nonostante fosse
stato proprio Orazio a dare il via a tutta la faccenda. Anche lui si accorgeva
di come la gente osservava Artemisia, di come tanti amici e conoscenti si
tenevano a distanza da lei, delle continue insinuazioni sul conto della figlia.
Ma lui ne era toccato solo marginalmente. Lui, in quanto uomo, era comunque
rispettato, nessuno gli aveva tolto il saluto e continuava a lavorare come
nulla fosse accaduto. Anche ai fratelli di Artemisia non era toccata la sorte
della sorella e nessuno era stato messo al bando o isolato dalla comunità. In
casa l’atmosfera era tesa e si parlava poco, la stessa Artemisia preferiva
restare da sola e non parlare piuttosto che sopportare la sensazione degli
occhi fissi su di sé del padre che sembrava chiederle in una muta domanda se
avesse qualche responsabilità in quell’affare. I momenti più drammatici del
processo e della violenza continuavano a perseguitarla e solo la pittura
riusciva a regalarle sprazzi di serenità. Era riuscita a riprendersi dal dolore
causato dalla tortura dei sibilli ma sembrava che più nessuno volesse i suoi
quadri; nonostante questo Artemisia ostinatamente dipingeva, perché sapeva che
la pittura era lei e lei era la pittura. Potevano maltrattarla, emarginarla,
sparlare di lei finché avevano fiato, ma la sua arte doveva crescere,
svilupparsi e lei sentiva che quella era la sua strada. Però, temeva che da
quel momento in poi la gente, sia i suoi contemporanei sia, se avesse avuto
fortuna e il suo nome si fosse tramandato anche tra le generazioni dei secoli a
venire, l’avrebbe ricordata non per la sua arte e i suoi dipinti, non per il
modo in cui dipingeva un volto o rendeva le luci e le ombre, ma unicamente per
quell’episodio, quella violenza che aveva rovinato per sempre la sua vita. Per
questo motivo, quella mattina dell’autunno 1612, capì che vi era un unico modo
per non correre quel pericolo. Era un segreto che aveva imparato anni prima, da
una donna che l’aveva aiutata quando sua madre era morta. Non era una strega ma
aveva appreso, non si sapeva come, rimedi, pozioni e incantesimi di ogni
genere. Era una buona donna e solo ad Artemisia aveva confidato l’incantesimo
degli incantesimi, il più potente. Era vecchia e stanca di vivere. Artemisia
aveva ricopiato sul suo diario l’incantesimo, ma non aveva mai seriamente
pensato di usarlo. E il momento, invece, era giunto.
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