Ecco in anteprima il capitolo 6, ambientato al tempo di Artemisia Gentileschi. Lei stessa e la sua triste storia è protagonista di questo capitolo.
CAPITOLO 6
Roma, autunno 1612
Seduta su uno sgabello davanti al cavalletto con la tela, Artemisia
stendeva il colore quasi senza pensare, immersa com’era nei suoi cupi pensieri.
Le pareva quasi che il quadro si completasse da solo, che le sue mani con una
propria autonomia dipingessero mentre lei si soffermava con la mente su
tutt’altro. Dipingere era l’unica cosa in grado di regalarle almeno un po’ di
serenità, anche se sempre più spesso si trovava a rivangare quanto accaduto in
quei mesi. Era una bella giornata autunnale, una di quelle in cui ancora il sole scalda la terra con i suoi
raggi e il cielo terso regala l’illusione di essere ancora nella stagione
estiva. Artemisia era sola in casa poiché il padre Orazio era andato fuori per
delle commissioni e i fratelli erano usciti di buon’ora. Ma anche se la casa
fosse stata piena di gente, lei si sarebbe ugualmente sentita sola. Mentre
immergeva il pennello nel colore nero, ripensò a quanto le era accaduto l’anno
precedente. Era una giornata come tante e lei stava nella sua casa in via della
Croce quando il pittore Agostino Tassi detto lo “Smargiasso” era entrato in
casa e approfittando dell’assenza di Orazio le aveva usato violenza. Artemisia,
che aveva intuito subito le intenzioni dell’uomo, aveva supplicato l’amica Tuzia,
sua vicina di casa, di non
lasciarla sola, ma quella se n’era infischiata e così il Tassi aveva avuto
campo libero e in breve aveva fatto di lei ciò che voleva. Lei aveva tentato di
resistere, graffiandolo, sputandogli in faccia, ma la forza dell’uomo era tanto
superiore alla sua che alla fine non era più riuscita a tenere a bada quella
belva. Artemisia non poteva dimenticare
la vergogna e il dolore per quella violenza e nemmeno il tradimento dell’amica.
Il Tassi era anche amico di suo padre, il quale tempo addietro l’aveva pregato
anche di dare lezioni di prospettiva alla figlia Artemisia, l’unica tra i suoi
eredi-tutti maschi-a padroneggiare l’arte della pittura. Era piuttosto
inconsueto che a una donna fosse concesso di praticare quell’arte ma Orazio
l’aveva avviata presto in quel mestiere appena si era reso conto che in lei si
nascondeva del talento. Anche a lui, probabilmente, era sembrata una cosa
sconveniente che una ragazza diventasse pittrice e certamente si doveva essere
preoccupato di quanto avrebbe detto la gente vedendola dipingere, ma in cuor
suo non se l’era sentita di precluderle quella possibilità, non dopo aver visto
con quale facilità sua figlia imparava e con quale passione si applicava per
emergere. Per questo aveva chiesto all’amico Agostino-che collaborava con lui
alla realizzazione della loggetta della Sala del Casino delle Muse di Palazzo
Rospigliosi- di darle lezioni sulla prospettiva, in modo da fornire ad
Artemisia ulteriori conoscenze che avrebbero arricchito il suo bagaglio artistico.
Quello che Orazio non poteva immaginare era che l’uomo aveva messo gli occhi su
Artemisia e da tempo attendeva l’occasione giusta per avvicinarla, come non
poteva immaginare che il Tassi, nonostante la loro amicizia e il sodalizio
artistico che si era creato tra loro, stava meditando di compiere un’azione
tanto spregevole. Artemisia non raccontò subito al padre quant’era accaduto.
Agostino nei giorni successivi aveva promesso di sposarla, così da rimediare
alla violenza e secondo la tradizione dell’epoca in tal modo era possibile
sistemare le cose. Non che Artemisia fosse contenta di sposarlo, anzi la cosa
la ripugnava, ma non vedeva altra via d’uscita per non essere additata dalla
gente che in quelle occasioni addossava sempre tutta la colpa alla donna. Lei
naturalmente sapeva di non aver fatto o detto nulla per incoraggiare l’uomo, ma
la gente ragionava in altro modo. Sapeva cos’avrebbero bisbigliato: avrebbero
detto che lei era una poco di buono, che aveva messo in atto mille astuzie per
farsi sedurre da Agostino e che in fondo si era meritata quella violenza.
Avrebbero sparlato di lei al suo passaggio, magari nessuno avrebbe mai comprato
un suo quadro. Ecco, era quest’ultima cosa che le pesava di più, che la sua
carriera artistica appena cominciata dovesse interrompersi per quel vergognoso
episodio e per colpa di un uomo che aveva distrutto il suo futuro. Per questa
ragione Artemisia inizialmente tacque con il padre e attese, seppur angosciata
e disgustata, che Agostino la chiedesse in moglie. Ma i giorni passarono e
Agostino non si presentò da Orazio per chiedere la mano della figlia. Poi
passarono le settimane, e quando fu chiaro che il Tassi l’aveva ingannata
Artemisia si decise a confessare l’accaduto al padre. Si era vergognata
talmente, nel raccontare al genitore quanto aveva dovuto subire e per tutto il
tempo aveva tenuto gli occhi bassi attendendo la condanna di Orazio. Artemisia,
infatti, pur amando il padre, era convinta che anche lui l’avrebbe incolpata
dell’accaduto. Era suo padre, è vero, ma era pur sempre un uomo, e come tutti
gli uomini anche lui probabilmente vedeva le donne come uniche colpevoli in
situazioni come quella. Orazio, seduto al tavolo della cucina, aveva ascoltato
la figlia senza fiatare, sempre più incollerito man mano che proseguiva. Alla
sua rabbia si mescolava anche un sentimento d’incredulità, proprio perché il
Tassi non era uno sconosciuto ma un amico e collega. Come aveva osato quel
farabutto rovinare sua figlia? Quando venne a conoscenza del fatto che la
violenza risaliva a tempo addietro, ricordò che aveva visto il Tassi fino al
giorno prima e con lui aveva scherzato e scambiato consigli sui lavori
commissionati ai due pittori. In lui non aveva mai notato nulla di strano, di
diverso. Semmai-e fu un particolare che gli tornò in mente solo mentre la
figlia continuava a parlare-era Artemisia che in quel periodo sembrava più
assente e più taciturna. Non aveva dato molto peso alla cosa ma in quel momento
capì che avrebbe dovuto indagare e scoprire cosa faceva soffrire la figlia. Se
avesse ancora avuto al fianco sua moglie, morta già da diversi anni, forse le
cose sarebbero andate diversamente. Lei sicuramente si sarebbe accorta subito
del cambiamento di Artemisia.
“Perché non hai parlato subito con me?” domandò Orazio quando Artemisia
ebbe finito il suo racconto.
Artemisia tacque un momento, sempre con gli occhi bassi e poi rispose:
“Aveva promesso di sposarmi.”
“Capisco. E dunque?”
“Niente” disse Artemisia.
“In questo caso c’è solo una cosa da fare” disse Orazio “denunciarlo”.
Già si era alzato dal tavolo e afferrava una mantella per coprirsi e andare a
fare il suo dovere affinché quel delinquente non la passasse liscia, quando
Artemisia lo fermò.
“No, vi prego padre. So che quell’uomo è stato ignobile e merita una
punizione, ma pensate a me.”
“Che cosa vuoi dire?” domandò Orazio senza capire.
“Pensate a cosa andrò incontro se ci sarà un processo. La gente mi
additerà, dirà che sono una dai facili costumi, che me la sono cercata, nessuno
vorrà un mio quadro”. Artemisia parlava concitata, con il terrore negli occhi.
Orazio, vedendola in quello stato, le mise le mani sulle spalle e la fece
sedere.
“Guardami, Artemisia” disse alzandole il viso con un dito. Artemisia lo
fissò per la prima volta da quando aveva iniziato a raccontare. “Che altro
pensavi che avrei potuto fare? Non posso andare da lui e farmi giustizia da
solo. O lo denuncio, oppure la faccenda si chiude qui, lo capisci?”
Artemisia non rispose. Si rendeva conto che il padre aveva ragione, ma
come uomo non riusciva a capire la sua posizione. Sarebbe stata sola, ad
affrontare quella battaglia. Sola contro le maldicenze, le cattiverie, sola
contro i pregiudizi della gente.
“Io vado” disse Orazio e rapidamente uscì chiudendo la porta di casa
dietro di sé senza aspettare la sua risposta.
“Ecco, ci siamo” pensò Artemisia “niente sarà più come prima nella mia
vita”. E, come avrebbe costatato in
seguito, aveva ragione.
Quello che ne seguì fu un processo che subito diede scandalo e che fece
di Artemisia la protagonista assoluta di quel dramma. Fin da subito, dal giorno
in cui Orazio era tornato a casa dopo aver sporto denuncia, Artemisia aveva
compreso che doveva prepararsi al peggio, che da quel momento in avanti avrebbe
potuto contare esclusivamente su se stessa e nessun altro. Ne sarebbe stata
capace, lei, una ragazza così giovane? Sarebbe stata in grado di sopportare
chissà quali voci e quali umiliazioni? Si disse di sì e decise che qualunque
cosa fosse accaduta non si sarebbe piegata. Nessuno, mai, sarebbe stato in
grado di usarle ancora violenza o di farla cedere, in nessun modo. Orazio
l’aveva informata che presto sarebbero iniziati gli interrogatori, non solo per
lei e per il Tassi, ma anche per Tuzia e per chiunque potesse sapere qualcosa
su quella squallida faccenda. Artemisia, saputolo, con un pretesto era uscita
di casa per starsene un po’ sola, nonostante Orazio le avesse raccomandato di
stare attenta a non incontrare amici del Tassi che potevano rifarsi su di lei
per aver avuto l’ardire di denunciare il suo stupratore. Ma Artemisia non
sopportava più di starsene rinchiusa in casa, l’aria le sembrava pesante e
nello sguardo del padre, seppure di sfuggita, le era quasi parso di notare un
muto rimprovero per quanto accaduto. La ragazza lasciò la casa per vagare in
pace per il Quartiere degli artisti, prima che la voce sulla denuncia
circolasse. Per il momento ne erano ancora tutti all’oscuro, eccetto il Tassi e
i suoi fedeli compagni, ed Artemisia sapeva che neppure loro avrebbero avuto il
coraggio di aggredirla per strada, in pieno giorno. La violenza del Tassi era
stata ben altra cosa, consumata in una casa privata, al riparo da sguardi
indiscreti, e nessuno avrebbe potuto udire le urla di Artemisia. A parte Tuzia.
Tuzia, l’amica fedele, colei che già donna aveva raccolto le confidenze, le
paure e le speranze di Artemisia ragazzina, colei che avrebbe dovuto
proteggerla in quanto donna e in quanto amica, quel giorno maledetto aveva
deciso di voltarsi dall’altra parte, di fingere di non vedere ciò che lo
Smargiasso stava architettando ed anzi addirittura l’aveva coperto quando, quel
giorno dannato, aveva deciso di non aspettare oltre e violentare Artemisia.
Mentre camminava per i vicoli senza una meta precisa, Artemisia pensava a
questo e a molti altri interrogativi. Si era infatti resa conto che quando
aveva parlato al padre dello stupro, quest’ultimo aveva deciso di denunciare il
Tassi solamente quando Artemisia gli aveva detto che l’uomo non aveva nessuna
intenzione di sposarla. Inoltre, lei stessa aveva raccontato tutto ad Orazio
solo quando si era resa conto che non vi sarebbe stato alcun matrimonio
riparatore. Ma com’era possibile? Ad entrambi più che la violenza intentata
dallo Smargiasso era parso più deplorevole la mancata proposta di matrimonio,
persino a lei, Artemisia, che quella violenza l’aveva subita in prima persona,
che per giorni e settimane e mesi aveva convissuto con quel peso, sentendosi
sporca, sbagliata, percependo dentro se stessa quasi la certezza di essersi
meritata quanto accaduto, benché invece sapesse benissimo che tutto ciò non era
vero. Non aveva fatto nulla per dare a intendere qualcosa ad Agostino ed era
ben sicura di non aver mai fatto allusioni che potessero essere interpretate in
modo erroneo. Ma allora perché dopo quel fatto si sentiva così, con quel
disagio perenne, come se ad essere nel peccato fosse lei e non il suo aguzzino?
Perché la società in cui viveva-si domandava-non condannava chi usava violenza
ad una donna, non l’atto in sé ma solo ciò che avveniva dopo, se il matrimonio
non aveva luogo? Ed ancora, perché le donne finivano per sposare i loro
torturatori? Com’era spiegabile che volessero condividere tutta la vita con
l’uomo responsabile di tutti i loro mali, sia fisici sia psicologici? Anche lei
stessa, in fondo, aveva creduto ad Agostino e sperato che la sposasse. Ora
stentava a riconoscersi nella ragazzina che giorno per giorno attendeva gli
eventi e pregava ogni notte, prima di addormentarsi nel suo letto, che lo
Smargiasso si presentasse a casa di Orazio per chiederla in sposa. Si rese
conto che la società del suo tempo ragionava in quella maniera, forse anche
nelle epoche passate si era sempre ragionato a quel modo e a tutti pareva una
cosa giusta. A nessuno-tranne forse a qualche donna più coraggiosa delle
altre-era venuto in mente che violentare una ragazza era un reato e che per
questo chi lo compiva meritava di finire in galera. La violenza in sé doveva
essere condannata, non il fatto di rifiutarsi di sposare la vittima. Artemisia
camminava e camminava, senza fermarsi a parlare con nessuno, senza prestare
attenzione al tempo, ai luoghi, e finì per trovarsi nelle vicinanze del Tevere.
“Sarebbe tutto più facile” pensò “se mi buttassi nel fiume.”
Poi però si vergognò di quel pensiero. Perché doveva essere lei a
morire, lei che non aveva fatto nulla di male, lei che era stata la vittima?
Era più che certa che invece pensieri del genere non avevano mai neppure
sfiorato la mente di Agostino, che anzi sicuramente si era vantato di quella
sua losca “impresa” con i suoi compagni delinquenti. Chissà quanto avevano
riso, tutti insieme in qualche taverna, mentre Agostino raccontava com’erano
andate le cose. Chissà come si erano divertiti, mentre lo Smargiasso narrava
con quale resistenza Artemisia aveva tentato di tenergli testa. Al solo
pensiero Artemisia si sentì rivoltare lo stomaco. Si fermò sull’argine del
fiume, ad osservare l’acqua che scorreva. Era così calmo, il fiume, lui che non
aveva problemi da risolvere. Le sarebbe piaciuto tornare indietro ed essere ancora
la ragazza che era prima dello stupro, ma sapeva anche che non era possibile.
La ragazza che era stata era morta quel giorno, mentre Agostino Tassi la teneva
ferma e le impediva di gridare schiacciandole una mano sulla bocca. L’Artemisia
di allora non c’era più, non ci sarebbe più stata. Quando pensava a Tuzia ancora
l’incredulità per quel suo comportamento aveva il sopravvento su Artemisia.
Artemisia, che aveva perso ancora adolescente la madre Prudenza, sentiva il
bisogno di parlare con una donna, così era nata l’amicizia con Tuzia. L’amica
l’ascoltava e le dava consigli, anche se le sembrava strano che una donna
potesse dipingere e abitando vicine per Artemisia era diventata un punto di
riferimento. Come aveva potuto, con quale cuore, diventare complice del Tassi?
Pareva che l’avesse addirittura avvertito di quando Artemisia sarebbe stata
sola e, quando Agostino le piombò in casa e Artemisia chiese aiuto, Tuzia finse
di non aver udito le sue parole. Così, senza nessun impedimento, si era
consumata la violenza in via Della Croce. Il tradimento di Tuzia l’aveva
così profondamente rattristata proprio perché immotivato visto il legame che si
era instaurato tra loro, e a momenti ancora non riusciva a capacitarsene. Se
fosse stata viva sua madre, forse l’avrebbe preparata a parare colpi di quel
genere, le avrebbe insegnato che al mondo la solidarietà tra donne è qualcosa
di difficilissimo da trovare, poiché solitamente viene ostacolata da sentimenti
diversi, sui quale predomina l’invidia. Artemisia invece l’aveva scoperto da
sola, e nel modo peggiore. Ma di che cosa poteva essere invidiosa Tuzia? Della
sua arte. Covava invidia per il talento dell’amica pittrice, per il fatto che
il padre l’avesse iniziata a quel mestiere nonostante fosse una donna, perché
forse un giorno i suoi quadri sarebbero stati apprezzati e venduti con successo
ed il suo nome conosciuto ovunque. Solo molto tempo dopo il tradimento
Artemisia l’aveva compreso. Doveva forse sentirsi in colpa anche per quello?
No, no di certo. E fu in quel momento, lì, sull’argine del Tevere, mentre il
sole tramontava colorando di tinte violette il cielo, che decise di non
rinnegare mai se stessa. Di non sottovalutare la sua arte, di continuare la
strada che aveva intrapreso anche se era una donna e a molti non avrebbe fatto
piacere, di non sputare su se stessa come donna perdonando il suo violentatore
o peggio sposandolo. Avrebbe affrontato il processo e tutte le sue conseguenze,
senza paura, a testa alta. Mai più, per nessuno, avrebbe chinato la testa. Artemisia
Gentileschi non aveva più paura di niente.
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